Quando una copy va allo stage, 8 puntata
Il dubbio amletico della stagista
«Cos'hai intenzione di fare dopo il tirocinio?». È la domanda che mi assilla giorno e notte. La stessa che mi è stata posta, oggi, da copy-capo. Ed è un vero rompicapo (la domanda, non il copy). Certo, dovrei portare a termine i miei studi, poiché sono ancora iscritta all'università, però... Il fatto è che il tirocinio mi ha molto cambiata, facendomi rivedere le mie priorità. Sono ora consapevole che la laurea è poco più che una gratificazione personale (anche se è pur sempre la massima aspirazione dei miei, che preferirebbero vedermi laureata e disoccupata piuttosto che il contrario) e che poco o nulla influirà su una mia futura e possibile assunzione. Altro particolare non irrilevante: se abbandonassi la pubblicità (interrompendo anche questa rubrica) rientrerei tra le fila degli studenti "tutta teoria e poca pratica". D'altronde, chi mai assumerebbe come copywriter (o assistente copy) una ragazza ventiduenne che frequenta Scienze della Comunicazione? Incredibile, la risposta c'è. La lista del sindaco della città nella quale studio e lavoro (purtroppo non nella quale abito) cerca una persona efficiente che si occupi della comunicazione. Copy-capo mi ha proposta: dice che è un modo per mantenere i contatti con la sua agenzia (e per non dovermi pagare di tasca sua!). Di fronte ad una situazione del genere, l'unica cosa che si può fare è valutare i pro e i contro. Pro: lavoro assicurato per un anno, primi soldini veramente guadagnati, incarichi sempre nell'ambito della comunicazione, curriculum arricchito (e di nomi importanti), ottime referenze. Contro: ostacolo agli studi, sfruttamento bell'e buono (lo stipendio è irrisorio e coprirebbe appena le spese e i disagi sarebbero molti, soprattutto nel trasporto), rinuncia alla carica di copy, e altri rischi impliciti quando si entra nell'ambito della politica. Sono combattuta, ma nella mia situazione non posso (ancora) permettermi di rifiutare nulla, soprattutto se ho avuto la fortuna di essere stata "raccomandata" (e di essere entrata, in qualche modo, in una sorta di "giro"). Se davvero volessi fare la pubblicitaria potrei iscrivermi ad uno di quei corsi specializzati i cui docenti sono professionisti del settore e poi - forse, chissà, magari - essere assunta nelle loro agenzie. C'è un problema, però: che le molte migliaia di euro richieste da queste scuole io non le ho. Ed è abbastanza rivoltante che il primo criterio di selezione di quelle che sarebbero istituzioni culturali non sia il talento (o le capacità, o le conoscenze), ma il denaro. Perché poi, una volta che si deve davvero lavorare, non conta più essere "figlio di", ma conta sapersela cavare.
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